(I)Sola

(I)sola self publishing

(I)Sola is a photographic project born during a journey and takes shape through a series of diptychs composed of two polaroids that capture the sea and the sky in a continuous relationship where the elements lose their boundaries until they merge into one another. The sense of disorientation and amazement accompanies these photographs where water is the true protagonist. Everything transforms, slips away only to return in another form. It’s a poetic tale of visions far removed from reality. It’s the wonder of the unexpected, of endless beauty, of peace. This journey is the search for an island that is not found in this vast sea but within oneself.

This sea is full of voices and this sky is full of visions.

(G.Pascoli)

The infinite sea confuses and gets away beyond sight. It is an eternal sea, fascinating and frightening at the same time, full of contrasting visions and sensations. Far from the mainland, I feel shipwrecked in these waters where sea and sky reflect each other like mirrors, losing their edges Water in the sky and water on Earth, without distinction of shape and where clouds and waves take to a dream. Loneliness silently goes through this space between real and unreal, full of love, fears, pain, hopes and absences. I am looking for a safe haven, an island perhaps, which is nothing but a reflection of myself. Suddenly, a thin line appears at a distance dividing clouds and waves, now becoming the point of arrival of my thoughts. Yet sky and sea cannot be distinguished, they dance together in perpetual motion in a dimension without time and space, in the infinity of this sea.

(I)Sola è un progetto fotografico nato in viaggio e prende forma attraverso alcuni dittici composti da due polaroid che catturano il mare e il cielo in una continua relazione dove gli elementi perdono i propri confini fino a confondersi l’una nell’altro. Il senso di smarrimento e stupore accompagna queste fotografie dove l’acqua è la vera protagonista. Tutto si trasforma, scivola via per poi tornare sotto un’altra forma. E’ un racconto poetico che narra di visioni lontane dalla realtà. E’ la meraviglia dell’inaspettato, della bellezza senza fine, della pace. Questo viaggio è la ricerca di un’isola che non si trova in questo immenso mare ma dentro se stessi.

Questo mare è pieno di voci

e questo cielo è pieno di visioni.

(G.Pascoli)

Il mare confonde, infinito scivola via oltre lo sguardo. E’ un mare eterno, affascinante e spaventoso al contempo, colmo di visioni e sensazioni contrastanti. Lontano dalla terra ferma mi sento naufragare in queste acque dove mare e cielo si riflettono come specchi, l’uno nell’altro, fino a perdere i propri confini. Acqua in cielo e acqua in Terra, senza distinzione di forma. Le nuvole e le onde ora svelano una dimensione che porta al sogno. E’ un abbandono dolce in queste acque. La solitudine attraversa silenziosa questo spazio tra reale e irreale, pieno d’amore, paure, dolore, speranze e assenze. Cerco un approdo sicuro, un’isola forse, che null’altro è che un riflesso di me stessa. Appare in lontananza una linea sottile che si staglia impietosa tra le nuvole e le onde, ora punto di arrivo o fine dei miei pensieri. E ancora una volta cielo e mare non si distinguono, danzano insieme in moto perpetuo in una dimensione tempo né spazio, nell’infinito di questo mare.

di DANILO GATTI filosofo

(I)Sola: sei dittici, dodici Polaroid, nessun percorso, nessun movimento. La storia è assente; il tempo sospeso, annullato o, forse più corretto, dimenticato, in un lavoro che non può che continuare a ripetere sé stesso e in cui – e non poteva che essere così per chi, come Taeggi, pensa sensibilmente attraverso le immagini – ricerca personale, suggestioni mitologiche e paesaggio convergono verso un solo punto inattingibile quanto desiderato: l’origine. Per questo è così difficile parlare di (I)Sola: qualsiasi discorso è attraversato da un prima e un dopo, da significati che si costruiscono, inevitabilmente, nel tempo. Il logos è costitutivamente abitato – o forse è proprio il suo avvento a determinarlo? – da quel che qui si cerca di annullare: l’articolazione. L’origine non si può dire, la si custodisce sempre nel tradimento; per questo non si può che continuare a parlare di (I)Sola, tentare di avvicinarsi alla tensione che la abita per poi scoprirsi già troppo lontani.

La scenografia, in principio, è sempre la stessa. Cambiano gli attori, certo, ma la posta in gioco è, anche qui, sempre quella: fissare un Ordine. Non importa neanche quale ordine in realtà, basta non sia il Caos; basta che nella ripetizione, nel susseguirsi di alcuni fenomeni piuttosto che altri, si lasci intravedere qualcosa di assimilabile a quanto, noi moderni, chiamiamo significato. Eoni più tardi, un filosofo, Leibniz, dirà che questo ordine, questo mondo, non può che essere, logicamente, il migliore tra i mondi possibili. Ma, in principio, in quella scenografia fatta da una manciata di nomi sparsi in ordine contraddittorio, la logica stessa doveva essere fondata e lo fu – in mezzo a quel caos in cui anche solo dire una parola era dire troppo – come fenomeno estetico: “un firmamento in mezzo alle acque che tenga separate le acque dalle acque”. Una miriade di punti luminosi, tanto era necessario a lasciar presagire ordine e ritmo nell’universo.

Prima – ma ha senso dirlo se il tempo non è ancora da venire? – erano le acque. Le acque e, spesso confuso con esse, il cielo. Più tardi, a volte insieme, sempre accompagnata da un che di transitorio, la Terra; poi, figlia illegittima, la Storia e la drammaturgia. Ma le acque, le acque illimitate – infinitamente mosse o assolutamente immobili? – restavano e permanevano, quasi che, per definizione informi, custodissero in potenza tutti gli sviluppi possibili. E in questa scenografia maestosa ma essenziale, l’onnipresenza delle acque, di quell’elemento continuo, inarticolato e presupposto, non può che ricordare al lettore moderno un altro elemento, altrettanto presupposto e mai nominato: la mente.

(I)Sola attraversa questi enigmi concreti, queste immagini contraddittorie, stratificate e spoglie. In questo scenario, l’ambivalenza è di casa sin da quella pienezza richiamata in esergo dalla citazione di Pascoli: pienezza è ricchezza, fertilità, infinita possibilità di sviluppo e racconto, ma – e qui il materiale mitico che si potrebbe citare è sterminato – la pienezza degli inizi è anche soffocante nella sua sovrabbondanza: nell’inarticolato non si vive; perché si possa dire Cosmo, perché si possa vivere è necessario un ritmo, è necessario separare, distinguere e unire in insiemi discreti. Per questo, all’occhio spaurito, capita spesso di confondere la maestosa distesa ferma delle acque, culla in potenza di ogni vita, con la quiete totale e stolida di una presenza mortifera. L’inizio e la morte, la mente e le acque – la scenografia, in principio, è sempre la stessa, ma la storia, a ben vedere, non fa che giocare continuamente con quelle poche cose che già, in principio, erano.

Il principio erano le acque e le acque, a volte, ritornano. Mitema largamente diffuso, il Diluvio Universale è un nuovo inizio, è un ritorno alle origini che non può che essere immersione distruttiva nell’inarticolato. Solo così un nuovo ordine può germinare. “Eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono” – perché il nuovo esista è necessario ripristinare il caos: le acque purificano perché annullano la storia. Il battesimo ripete sul piano individuale la cosmogonia: l’uomo vecchio muore e, con le parole di Giovanni Crisostomo, “quando usciamo dall’acqua, l’uomo nuovo appare simultaneamente”; ed è difficile non guardare a (I)Sola senza coglierne la profonda tensione al rinnovamento, la speranza di un “approdo sicuro” raggiunto al vaglio delle acque – un nuovo inizio. Ma qualcosa, lo sappiamo, resiste sempre. Nella mitologia Indiana, le acque presiedono al ciclo cosmico di distruzione e rigenerazione e, ogni inizio, ha sempre lo stesso paesaggio: una distesa infinita di acque su cui galleggia, addormentato, un dio sostenuto nel suo sonno da un serpente, Śeṣa, emblema evidente dell’inarticolato e simbolo dell’eternità; ma, in accordo con la radice śiṣ del suo nome, anche ciò che rimane, ciò che resta dal ciclo perenne di distruzione e rinascita dell’universo. Quello che si direbbe l’inizio è già, a ben vedere, sotto il segno del doppio. Lontano da qualsiasi ingenuità, (I)Sola non abbandona mai la forma del dittico: c’è una tensione interna che non permette di acquietare lo sguardo, di riposare addormentati sulle acque, perché l’origine, l’annullamento della storia e la purificazione totale sono sempre desiderati, sperati ma, Michela Taeggi lo sa, impossibili. Quell’isola ricercata è, esattamente come il serpente Śeṣa, ciò che resta dopo aver attraversato le acque.

Ma non è solo questione esistenziale, è anche questione filosofica. In principio erano le acque, quelle erano sempre, poi un albero, un fico per l’esattezza, e due uccelli tra i suoi rami: uno intento a mangiare un frutto e l’altro a guardarlo. Che qualcosa accada, per questo mito indiano, è indifferente; che qualcosa accada e che sia visto: questo è tutto. Ancora una volta, un’immagine dell’origine si sdoppia, c’è un’azione e c’è la coscienza di quell’azione. È un gioco di specchi che porta a un infinito di cui non sapremmo che farcene, eppure è ineludibile in una ricerca personale e cosmica come (I)Sola: la danza tra cielo e mare vortica intorno a un’identità non si realizza mai. Non è possibile essere uno con sé stessi: si è sempre qualcosa di diverso – sono cosciente di mangiare un frutto, sono cosciente di esser cosciente di mangiare un frutto e così via all’infinito, senza mai giungere al puro fatto di essere coscienti – e, nella sua contrazione estrema, la distanza è perfettamente esemplificata nell’immagine del mito: c’è un uccello che mangia un frutto e l’altro che lo guarda, maggiore approssimazione all’identità non è immaginabile. Remoto, presupposto, resta uno spazio in cui questa relazione costitutiva può aprirsi; un’Isola appunto o, come diceva Heidegger a latitudini completamente diverse, una radura.

In principio erano le acque, il continuo, l’inarticolato. Ogni cosmogonia è innanzitutto separazione: atto spesso violento ma necessario alla vita; atto che oggi, in psicologia, benediciamo con il nome di individuazione e che riconosciamo, in (I)Sola – condizione di esistenza o equilibrio ristabilito? –, in quell’unica polaroid dove compare l’orizzonte. Per i pitagorici l’universo intero era costituito da rapporti armonici: era solo l’abitudine a impedirci di ascoltare la musica delle sfere celesti. L’immagine è grandiosa, cosmologica, ma l’armonia è già nel segno del rapporto e quindi della separazione: per quanto benedette, le acque del principio erano inabitabili. La nostra vita prospera nel segno della differenza e del discreto, questo comporta un certo grado di approssimazione, certo, ma nessuno chiede all’autoanalisi di essere scienza rigorosa, è sufficiente che funzioni: dire Io, dire Sé, è già dire troppo; ma tanto basta affinché sia possibile la musica delle sfere celesti. Sedotti dall’unità, germiniamo della differenza.

Intanto cielo e mare continuano a danzare, si avvicinano e si confondono intorno a un punto fermo quanto irraggiungibile, semplificato da una formula che dice già troppo: in principio erano le acque.